a cura di Giorgio Verdecchia

Da parecchio tempo gli addetti ai lavori, gli esperti, i politici e gli stessi cittadini registrano i malesseri che affliggono il nostro sistema sanitario e si interrogano sul suo futuro.
Con questo intervento non pretendiamo di compiere una rassegna puntuale ed esaustiva di tutto quanto si dice al riguardo né tanto meno di dare risposte definitive agli interrogativi che aprono. Vogliamo piuttosto, da cultori della materia, sollecitare l’avvio tra gli utenti di questo sito di un confronto di idee sulle cure che i nostri amministratori stanno approntando. Con quale scopo? Promuovere il dibattito sulla strategia di posizionamento della specialistica ambulatoriale accreditata, uno dei segmenti operativi del sistema oggetto di pesanti interventi riorganizzativi.

Che il Servizio sanitario nazionale non goda di buona salute e veda aggravarsi ogni giorno i sintomi di gravi patologie di funzionamento è difficile negarlo. Ha bisogno di essere curato. Ad appena quarant’anni dalla nascita, il sistema che deveva negli intenti del legislatore proteggere la salute degli individui come interesse generale dell’intera collettività, anche se fa registrare positivi gli indici di salute della popolazione, non riesce a soddisfare in modo adeguato la domanda sociale che viene dal Paese. È lento nel reagire, anche perché soffocato dalle contingenze dei conti pubblici e privo di una vera strategia. Procede per tentativi ed aggiustamenti, generando strappi e contraccolpi nel suo tessuto organizzativo al di fuori di una vera programmazione. Anche senza cadere nell’allarme lanciato da chi teme il ritorno alle vecchie mutue e senza rimettere in discussione le scelte politiche compiute nel 1978 e ormai consolidate anche nella coscienza sociale del Paese, è doveroso chiedersi se siamo in presenza di una semplice crisi o se non stiamo avvicinandoci al fallimento del modello beveridgiano della sicurezza sociale.

Non è male ricordare che sotto l’ombrello protettore dell’articolo 32 della Costituzione lo Stato compì allora un’operazione poderosa, la cui faticosa gestazione aveva occupato quasi un trentennio della nostra storia politico-legislativa. Si volle far confluire in un unico contenitore il sistema dell’igiene pubblica, gli enti ospedalieri ed il mondo delle assicurazioni obbligatorie contro la malattia. Il tutto confidando nella forza demiurgica della legge, ma di fatto abbandonando poi il progetto a se stesso. I corpi distinti della sanità, con origini, vocazioni, missioni e storie molto diverse, si sono misurati con questa sfida, scruitandosi con diffidenza e ancora oggi non parlano la stessa lingua. Ciascuno difende gli steccati in cui ha potuto riposizionare i propri loro legittimi interessi, non sempre coerenti con quelli generali della collettività al cui servizio sono stati destinati. Possiamo dunque parlare di una riforma tradita perché non ha riformato gli ingredienti del progetto? Credo proprio di sì.

Dobbiamo prendere atto che, mentre i nostri amministratori si stanno affaccendando per far quadrare i conti e  nonostante le dichiarazioni tranquillizzanti rilasciate dai responsabili politici, non sono pochi coloro che temono per la sostenibilità nel tempo di questo enorme apparato di servizio pubblico e paventano il suo crollo con ricadute difficilmente immaginabili per l’intera società. La specialistica ambulatoriale privata, da sempre pilastro essenziale della macchina erogativa delle prestazioni, è, come tutti gli altri settori, investita da questi fermenti e non può sottrarsi alle preoccupazioni che ne discendono. Deve accettare le sfide del cambiamento, vivendole non come una pura esercitazione culturale, ma come passaggio, , non sempre facile, indispensabile per assumere scelte chiare sul futuro.. Oggi è molto di moda parlare di innovazione e di cambiamento. Il mondo è pieno di esperti riformatori “tanto al chilo”. Ci prospettano scenari futuri, ora ottimistici ora catastrofici, e nuove ricette di cura, ma restano disancorati dalla realtà che vogliono modificare. La società, resa “liquida” dalla globalizzazione naviga a vista reagendo come può alle tempeste che la sommuovono. Ricordiamoci sempre che per innovare bisogna avere chiaro in mente ciò che si lascia e ciò che assumiamo come nuova meta da raggiungere. Occorre saper tracciare i nuovi percorsi da seguire per non infrangersi sugli scogli.

Se il nostro obiettivo è salvare il sistema sanitario, vale quindi la pena di approfondire la diagnosi dei malesseri che lo attraversano e di impegnarsi nel disegnare i possibili percorsi di cura.

I sintomi del disagio economico e funzionale del sistema sono molti. Per non disperderci nel labirinto delle analisi tecniche e nemmeno nella selva delle tabelle statistiche, non sempre tra loro concordi e capaci di confondere le idee anche agli esperti, ricorriamo ad alcuni macro-indicatori sintetici che riteniamo più efficaci degli altri per cogliere la sostanza del nucleo centrale dello stato di sofferenza del Servizio sanitario nazionale.

La dimensione della macchina erogativa del servizio, in primo luogo. Il sistema di produzione del Servizio sanitario è oggetto di una politica di ridimensionamento avviata con la riforma aziendalistica del 1992 e proseguita per tappe successive contrassegnate dall’esigenza della riduzione della spesa pubblica. Ad oggi (Rapporto OASI 2016) il sistema, anche se mal distribuito a livello territoriale, consta di 21 holding regionali, da cui dipendono 121 Aziende sanitarie e 71 Aziende Ospedaliere; 450 strutture di ricovero pubbliche e 647 strutture di ricovero private con complessivi 220.455 posti letto, dei quali il 30 per cento privati accreditati; 691 distretti territoriali con 9.268 ambulatori e laboratori specialistici, di cui il 58,9 per cento privati accreditati, 2.787 strutture residenziali, di cui il 64,2 per cento private accreditate, 6.526 strutture semiresidenziali, di cui il 76,7 per cento private accreditate, 5.682 strutture distrettuali (consultori, centri di salute mentale) prevalentemente a gestione diretta. A tutto ciò dobbiamo aggiungere l’esercito dei 629,713 dipendenti, dei 47.490 medici di medicina generale, dei 7.705 pediatri di libera e delle 18.200 farmacie, Non possiamo certo temere che al Servizio manchino risorse umane e strutture in grado di perseguire la tutela della salute della popolazione. Il problema è come queste risorse sono distribuite, organizzate e gestite.

La spesa che ne deriva, in secondo luogo. Anche se l’emergenza finanziaria sembra sia scemata (CEIS, 12° rapporto Sanità, 2016), sta di fatto che la spesa sanitaria pubblica in Italia si colloca al di sotto della media europea con una forbice di circa 4 punti percentuali. Va registrato, però, che la componente pubblica copre solo il 79% della spesa totale che il Paese sostiene per le cure (circa 140 miliardi/anno). Chi può copre il differenziale (21% pari a quasi 30 miliardi/anno) acquistando le prestazioni sul libero mercato o ricorrendo, per una quota stimata in circa 3,5 miliardi/anno e ritenuta dagli esperti ancora insufficiente, a forme assicurativo-mutualistiche, con le quali la specialistica ambulatoriale ha proficui rapporti di scambio. Ma chi non può – si parla di 9 milioni di persone, come da qualche anno sostiene il CENSIS nei suoi rapporti sulla situazione sociale del Paese - deve rinunciare alle cure. Il mito dell’universalismo e dell’equità sociale del sistema è messo a dura prova, sia a livello territoriale che di stratificazione della ricchezza. E’ in pericolo la coesione sociale, ci avvertono i sociologi.

La governabilità del sistema, infine, ossia la capacità di arginare la dispersione degli attori e di dirigere l’attività dell’apparato orientandola verso il raggiungimento degli obiettivi strategici. Qui i segnali di malessere aumentano in misura esponenziale e diventano veramente preoccupanti. Non serve parlarne troppo . Il management asservito alle politiche regionali accentua anziché ridurre le differenze del grado di copertura dei livelli essenziali di assistenza. Il sogno di quanti hanno sperato nel recupero dei poteri dello Stato centrale rispetto al regionalismo trionfante sono svaniti con l’insuccesso della terza riforma della Costituzione Eccellenze tecniche vivono accanto a situazioni appena tollerabili. La burocrazia, il disimpegno e l’indifferenza ai bisogni della gente allontanano sempre di più l’idea del “buon andamento” della cosa pubblica, al quale hanno cercato di educarci i padri costituenti. Le truffe e il malaffare sono pane quotidiano per gli osservatori della sanità. La rigidità nella allocazione delle risorse tra le varie componenti della spesa è lo specchio in cui si riflettono la dialettica ammalata tra politica e tecnocrazia nonché i conflitti tra le categorie degli attori ingabbiati nei loro micro-sistemi autoreferenziali.

L’ ingovernabilità del sistema verso chiari obiettivi di salute ben identificati partendo dai bisogni reali e diversificati di gruppi di popolazione è il vero dramma di un’assistenza che, una volta diventata “diritto”, si è trasformata in un fenomeno di consumo sociale di massa, gratuito o quasi-gratuito, di prestazioni e di beni sanitari, che fa pagare alle Stato la tutela dei più fortunati e la protezione degli interessi professionali ed industriali meglio posizionati,

Ma c’è una ulteriore insidia emergente, anche se silenziosa, a turbare i fragili assetti consolidati ed i pensieri di chi guarda al sistema sanitario con realismo e senso di responsabilità. Si tratta del progressivo invecchiamento della popolazione, un fenomeno silenzioso ma inarrestabile, che sta mettendo in crisi i valori stessi ed i modelli del welfare posti a fondamento dell’idea di Europa. Un fenomeno a cui si associa il preoccupante slittamento verso forme di patologie che determinano ciò che gli epidemiologi chiamano l’aumento degli “anni di vita trascorsi con patologie cronico-degenerative”. Viviamo più a lungo, ma cresce il numero di quelli che non vivono in buona salute. Secondo i dati del Global Bunden of Desease 2013 l’indice dell’years lived with disability è cresciuta in Italia del 20 per cento rispetto al 1990. La lista di queste patologie non è rigida. Va dalle neoplasia al diabete mellito, dalle patologie del sistema cardiocircolatorio alla sclerosi multipla, dall’artrite reumatoide alle gastriti e duodeniti. I dati ISTAT confermano impietosamente l’invecchiamento della popolazione. Secondo le previsioni al 2050 le persone over 65enni saranno il 33 per cento dell’intera popolazione (quasi 20 milioni), mentre gli over 80enni ne rappresenteranno il 13%, quasi 8 milioni. Le persone ultrasettantacinquenni affette da patologie croniche rappresentano il 69,4 per cento della popolazione in questa fascia di età (5.6 milioni). Il Censis stima che la disabilità per invecchiamento e cronicità colpirà il 10,7 per cento della popolazione, corrispondente a circa 6,5 milioni di soggetti.

All’insieme dei macro indici strutturali esaminati – dimensione e distribuzione dell’apparato, risorse sempre più limitate, ingovernabilità – si somma l’indice crescente delle disabilità e delle cronicità, formando, se associati, una miscela esplosiva capace di travolgere il nostro sistema sanitario. Anche se sappiamo bene che il Servizio sanitario nazionale, in quanto istituzione pubblica espressione di valori sociali insopprimibili, non può fallire per il semplice dissesto dei conti, dobbiamo preoccuparci della tenuta del tessuto sociale del Paese, messo pericolosamente a rischio dalla caduta dell’indice di fiducia della popolazione nella protezione pubblica. Lo attesta l’avanzare di sistemi di assistenza integrativi, ma in realtà sostitutivi se non dichiaratamente alternativi, ai quali i privati ricorrono, quando possono, individualmente o associandosi in formazioni mututo-assicurative. Oggi le persone assistite dal secondo pilastro alimentato dal risparmio privato superano gli 11 milioni.

Chiediamoci allora quali sono le politiche e le strategie con le quali è possibile scongiurare la deflagrazione e quali, in particolare, quelle scelte dalle nostre autorità. Proviamo  ad individuarle e a valutarne il grado di implementazione per identificare le coordinate di una possibile strategia di posizionamento della specialistica ambulatoriale. L’operazione non è semplice, considerando l’effluvio delle leggi nazionali, a cui si somma l’inondazione della legislazione regionale, talvolta capricciosamente ed irragionevolmente disomogenea.

Una linea di tendenza sembra tuttavia emergere con sufficiente chiarezza e può aiutarci a decidere su come anche l’ambulatorietà privata intende affrontare il futuro. Ci riferiamo alla politica del riequilibrio ospedale-territorio affiancata dal riordinamento dell’assistenza primaria. È questo l’asse intorno al quale il sistema sta cercando di ruotare. Venute meno le aspettative riposte nella riforma aziendalistica della macchina produttiva, la svolta è stata impressa dalla legislazione del 2012 finalizzata alla riduzione della spesa pubblica nell’invarianza dei servizi ai cittadini. Si è aperta una nuova stagione di raffreddamento della spesa e di riduzioni tariffarie e si sta, anche se con troppa lentezza e con posizioni ondivaghe, cercando di rifondare il sistema sanitario modificando i tradizionali i equilibri tra polo ospedaliero e polo territoriale. L’obiettivo è quello di riportare l’ospedalità alla sua vocazione fisiologica di struttura complessa professionalmente, tecnologicamente ed organizzativamente attrezzata per affrontare le situazioni acute. Si vuole estrarre il territorio dal vuoto organizzativo in cui attualmente versa e trasformarlo - l’assistenza primaria “ora o mai più” ci ha ancora una volta ricordato l’OMS pochi anni orsono richiamando gli insegnamenti di Alma Ata - in un sistema organico di base ed intermedio che accoglie il paziente, lo ascolta, ne valuta il bisogno, progetta il piano di cura appropriato e lo gestisce senza soluzioni di continuità, valutandone gli esiti. Così ri-pensata, l’assistenza primaria diventa il regolatore della domanda e la cabina di regia dell’assistenza. Realizza una vera rivoluzione copernicana del sistema erogativo. Non più il paziente lasciato solo a ruotare intorno alla macchina erogativa nella ricerca del punto migliore di accesso alla cure, ma una macchina che ruota introno al paziente intercettando i suoi bisogni di salute e guidandolo nella fruizione delle cure.

Cosa stiamo facendo in casa nostra sotto questo profilo ? Allertato dai segnali dell’emergenza anziani, dopo quasi un ventennio di grida manzoniane andate disperse nei documenti di programmazione e nei convegni, si è dovuto muovere il legislatore. Le leggi hanno tracciato la strada. Si abbassano gli standard dei posti letto ospedalieri, si chiudono i piccoli nosocomi e li si riconverte in strutture intermedie a bassa intensità clinico-assistenziale (Ospedali di Comunità, centri di cure palliative, residenzialità più o meno specializzata). Alle regioni è affidato il compito di costruire reti di presidi di prossimità gestiti da équipe mutiprofessionali e plurifunzionali (UCCP, Case della Salute, team di assistenza domiciliare integrata). Le iniziative avviate dalla Regione Lombardia per la gestione delle cronicità ne sono uno dei momenti più interessanti. L’apparato, strutturalmente diviso e schierato a difesa di interessi corporativi in contrasto tra loro e vittima di regolamenti convenzionali contrapposti e di governi politici senza idee, ha per lo più reagito frenando nell’indifferenza il cambiamento effettivo del sistema. Ma il processo è avviato e bene o male procederà nel suo cammino. Anche la specialistica ambulatoriale sembra giocare in difesa e cerca forme aggregative, per conseguire le economie di scala imposte dal committente e vissute più come vittima di politiche tariffarie ed organizzative subìte che non come protagonista del cambiamento. Eppure possiamo cogliere sullo sfondo di questa strategia un segnale di cambiamento abbastanza chiaro che dovrebbe risvegliare lo spirito di impresa dei suoi attori.

Riflettiamo su questa prospettiva per non perdere occasioni preziose. Vediamo emergere l’idea di una nuova dimensione organizzativa dell’assistenza territoriale, nella quale il servizio di “presa in carico” del bisogno del paziente e non più l’atto sanitario in sé considerato, sia esso una visita medica, un accertamento diagnostico, una seduta di fisioterapia, un farmaco o un dispositivo sanitario, occasionale, episodica e fine a se stesso, diventa il vero contenuto della prestazione scambiata. Tutto ciò deve confluire in un “processo” di servizio, che dovrà essere governato dall’istituzione committente, ma affidato operativamente non a strutture ammnistrate burocraticamente, ma  a provider professionali accreditati, senza distinzione tra pubblici e privati, che diventano concessionari per la gestione di reti erogative integrate e coordinate. L’Amministrazione faccia bene il suo mestiere strategico e di committenza. Basta con la contrapposizione ideologica tra pubblico e privato nella gestione operativa. Basta con la polverizzazione dei punti di erogazione delle prestazioni. Basta con la guerriglia tra gli interessi delle corporazioni sanitarie protette dalla politica e dalla burocrazia. Nella misura in cui l’ospedale arretra, il territorio deve diventare il luogo in cui cresce un sistema organico di servizio a conduzione economico-aziendale, in cui ciascuno trova il suo posto collaborando con gli altri e misurandosi con i risultati raggiunti. Ha bisogno di chi lo sappia governare, ma ha necessità assoluta di avvalersi di una rete tecnico-professionale che, ancorché distribuita in prossimità dei luoghi di vita e di lavoro del paziente, deve essere strettamente integrata nella conduzione dei processi.

Può sembrare un programma velleitario, almeno se ci attardiamo ad osservare lo stato dell’arte. La cultura manageriale e gli strumenti del governo distrettuale ancora non ci sono. Sul territorio ciascuno difende gli spazi conquistati. Il rischio che nell’inerzia degli attori territoriali l’ospedale possa esondare dalle sue mura per allagare il territorio circostante non è pura fantasia. D’altro canto non possiamo non vedere che il tessuto economico e produttivo dei servizi sta modificando la struttura delle relazioni tra gli individui, tra i clienti ed i fornitori, tra le imprese private e la pubblica amministrazione. I bisogni premono e spingono il sistema a muoversi. Si parla di sharing economy e di e-commerce. L Europa ci indica la strada dell’ “industria 4.0”, una sorta di quarta rivoluzione industriale che prefigura la de-materializzazione della produzione e degli scambi dei beni e dei servizi. L’ITC avanza. L’e- health è tra di noi: il libretto sanitario si sta trasformando in fascicolo sanitario elettronico; la ricetta si de-materializza; le fatture diventano telematiche e viaggiano verso il fisco producendo big data; a supporto dei decisori tecnici e politici; la telemedicina è sempre più a portata di mano grazie anche al digitale portatile. Insomma la tecnologia può creare l’infrastruttura che integra le parti del sistema più di quanto possano fare le leggi e i regolamenti. Basta saperla attivare e metterla al servizio di un progetto.

Crediamo di essere autorizzati a vedere all’orizzonte un sistema assistenziale che dimostra di essere capace di gestire il servizio “per processi e per obiettivi”. Proviamo a riflettere sul futuro della specialistica ambulatoriale all’insegna di questi stimoli di cambiamento, senza rimanere prigionieri di pregiudizi. Vedremo aprirsi la strada per una prospettiva meno deprimente di quella alla quale ci stiamo adattando. La regioni si stanno muovendo e presentano con comprensibile enfasi il loro territorio presidiato da nuove forme aggregative tra medici di medicina generale (AFT) ed altri professionisti sanitari (UCCP), nonché da Case della salute multiservizi, ma si tratta di sperimentazioni organizzative. Il cambiamento del sistema erogativo pubblico è ancora poco visibile al cittadino e di dubbio successo perché soffocato in partenza dalla mancanza di quello che la mano pubblica non ha saputo (o voluto ?) capire ed introitare, ossia la distinzione –fondamentale - tra la dimensione burratica e la dimensione aziendale, tra la funzione di governo strategico e quella di produzione. La prima compito precipuo dell’istituzione, ma malissimo assolta da un management ammalato di burocrazia. La seconda ben delegabile a provider esterni professionalmente e strutturalmente attrezzati, opportunamente selezionati, remunerati e responsabilizzati secondo rapporti concessori degni di questo nome.

Insomma, il futuro di cui parliamo per le imprese della specialistica ambulatoriale è quello della loro evoluzione, magari avvalendosi degli attuali processi aggregativi, in agenzie di assistenza primaria concessionarie del servizio. Con questa formula identifichiamo una struttura facilmente accessibile perché immersa nella comunità di riferimento territoriale, che funziona come organismo propulsore (cabina di regia) di reti di presidi e strutture distribuiti sul territorio coinvolgenti anche l’ospedale. Ad essa l’utente, già fidelizzato e legato da una preziosa relazione fiduciaria da presidiare e coltivare con la massima cura, si rivolge, a prescindere da chi paga il conto, perché non si limita ad offrire singole cure o prestazioni e beni sanitari, ma perché lo accoglie e dimostra di essere in grado di offrirgli percorsi assistenziali in tutte le loro dimensioni sanitarie e socio-sanitarie. Il servizio offerto consiste nella presa in carico dei bisogni del paziente, nella pianificazione, nella organizzazione e nella gestione con il concorso di professionisti qualificati dei percorsi di cura e di assistenza più appropriati. Garantita la qualità tecnica, si offrono ulteriori valori di servizio: si riducono i tempi di attesa, si semplificano le procedure operative, si monitorizzano i risultati, si garantiscono accoglienza, ascolto, informazione, gentilezza, consiglio qualificato e supporto. L’ambulatorio specialistico è già oggi un punto di riferimento per migliaia di persone. Si tratta di trasformarlo da opificio di prestazioni specialistiche o, come in molti casi sta accadendo, da terminale di potenti opifici automatizzati, in centro di servizi sanitari, capace di intercettare la nuova e crescente domanda di servizio che avanza senza trovare risposta e di offrire alla propria clientela pacchetti di servizio ritagliati sulle specifiche esigenze della persona. Di questo il sistema ha assoluto bisogno. A cominciare dai pazienti, abbandonati a se sessi nel labirinto del distretto, specie se fragili sanitariamente. Serve all’azienda sanitaria, che con gli attuali strumenti amministrativi non riesce a collegare né logisticamente né funzionalmente le monadi del sistema territoriale delle cure primarie, affaccendate nella gestione dei propri studi e dei propri ambulatori. Serve anche al mondo mutuo-assicurativo, che sostiene i costi dei processi di cura, spesso inappropriati e consumistici, dei quali non possiede strumenti di governo.

L’operazione non richiede l’attrezzaggio di grandi cattedrali tecnologiche. Necessita soprattutto di una organizzazione, formata da un front-office gradevole rivolto alla clientela ed un back-office ben strutturato e supportato da una rete di accordi con professionisti e presidi alimentata da una centrale operativa. Non è poco, ma si può cominciare a farlo, sperimentando le soluzioni possibili ed offrendole, una volta consolidate, all’istituzione sanitaria come alternativa percorribile mediante accordi concessori di servizio.

 

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